Ingegneria delle differenze
La buona notizia della settimana è che non sono solo. La cattiva notizia della settimana è che non sono solo.
Il vantaggio del posto dove lavoro è che non ho colleghi italiani e quindi mi è più facile confrontare la mia esperienza professionale con quella del resto del mondo. Ieri, per esempio, si discuteva di processi produttivi nello sviluppo di software a vari livelli, e ciò che da una parte mi ha confortato e dall’altra terribilmente sconfortato è che la pratica di reinventare la ruota è drammaticamente comune in tutto il mondo, sia ad aziende di piccole dimensioni (meno di 20 dipendenti) che magari, o magari no, lavorano in una nicchia molto piccola e quindi sono quasi giustificate a sviluppare soluzioni ad hoc, sia ad aziende di grandi dimensioni (da 20 a diverse centinaia di dipendenti) che lavorano in ambienti più comuni per cui molte tecnologie fondanti già esistono e a volte sono a portata di mano o di portafogli, basta avere l’onestà intellettuale (e magari la pecunia) di riconoscere che il lavoro altrui è buono, probabilmente più di quello cucinato in casa, e che spendere una certa quantità di tempo per ricercare soluzioni invece di farsele da capo è un’ottima idea in termini di risparmio di tempo e denaro nel medio e lungo periodo, e guadagno di supporto da parte di chi quella tecnologia già la usa o l’ha addirittura sviluppata [1].
La cosa di cui però volevo parlare è un po’ diversa ma siccome non ho molti dati a riguardo, e le cose anche qui sono piuttosto confuse perché spesso non è facile capire se si sta parlando della stessa cosa con nomi diversi o di cose diverse con nomi simili, butto giù un po’ di impressioni e poi parliamone.
La prima volta che ho avuto sentore di questa faccenda è stata durante l’Erasmus quando un tipo, avendo compilato una domanda spagnola, si è sentito rispondere che il suo bachelor in Computer Science a Cambridge equivaleva più o meno alla qualifica di Ingeniería Técnica che è una specie di perito on steroids, secondo l’ordinamento spagnolo, sebbene la si ottenga dopo un corso universitario di tre anni.
Tutto ciò non ha molta relazione col discorso ma mi ha comunque incuriosito. Nella prospettiva italiana conosciamo due tipi di studi informatici, l’Ingegneria Informatica, che ad oggi vive sotto l’ombrello delle ingegnerie dell’informazione e si svolge nei dipartimenti di ingegneria, e quella che alcuni chiamano Scienze e Tecnologie dell’Informazione, comunemente chiamata Informatica, che vive di solito nei dipartimenti di matematica e roba così. Ora, le differenze tra le due cose sono più di approccio che altro perché alla fine entrambi i corsi si occupano più o meno delle stesse cose. L’approccio ingegneristico è quello della progettazione di sistemi informatici (reti, protocolli…) e della soluzione di problemi ingegneristici, cioè problemi appartenenti alle altre ingegnerie tipo le telecomunicazioni, l’elettronica, l’automazione e così via; quello dell’informatica è più teorico, tratta dei fondamenti scientifici dell’informatica tipo complessità, linguaggi, sistemi operativi e roba così. Già qui potrei calarci un sonoro “stronzate” perché, almeno nella mia personale esperienza, io che ho studiato ingegneria informatica ho visto la mia dose di complessità, algoritmi, linguaggi eccetera–sebbene non sia tanto convinto che chi ha studiato informatica liscia abbia visto questioni elettroniche, di automazione e via discorrendo, ma evitiamo di trascendere ché io con gli informatici ho già il dente avvelenato per conto mio.
Il punto è che quando è venuto il momento di raccontare i miei studi, né i colleghi studenti, tranne sorprendentemente i francesi, né i professori riuscivano a concepire la vastità degli argomenti che ho coperto in cinque–ok, sette–anni di studi. A mia volta difficilmente sono riuscito a trattenere la meraviglia nello scoprire che gente proveniente da corsi di Computer Science o Software Engineering ignorasse aspetti della disciplina che per me sono fondanti tipo l’elettronica, l’automazione, probabilità e statistica, l’algebra o la gestione di grandi quantità di dati, cose in cui io non mi reputo assolutamente un esperto ma che se ne ho bisogno apro un libro e mi ci raccapezzo mentre qua ho gente che per analizzare i dati raccolti da un esperimento deve seguire un corso di statistica perché altrimenti non sa da che parte cominciare. Ma non è finita qui: quello che mi ha sorpreso ancora di più è l’esistenza di interi corsi di laurea (bachelor e master [2]) in roba tipo l’ingegneria del software che per un ingegnere informatico italiano (o francese, bisogna dar loro merito, ma anche per l’informatico di scienze) è poco più di un paio di corsi nel piano di studi.
Il problema a questo punto è duplice: come andare a presentarsi all’estero senza elencare una lunghissima lista di competenze che rischia di farci suonare boriosi, e come fare in modo che tutte queste competenze, certo non molto approfondite ma che contribuiscono comunque al quadro generale, siano comprese nella giusta prospettiva e quindi valutate e valorizzate correttamente?
Parliamone.
- Certo, uno può anche dire che il supporto costa, ma in molti casi ne vale la pena, soprattutto se in casa si dispone di persone preparate e sveglie e non di scimmie ammaestrate.[↑]
- Che, ci tengo a precisare, corrispondono alle nostre lauree triennali e specialistiche, il master all’italiana non ha una ceppa a che vedere col master come lo intendono nel resto del mondo.[↑]
Lorenzo Breda dice:
Riguardo le suddivisioni, sappi che qui a Sapienza Università di Roma dall’anno scorso hanno preso ingegneria informatica (che si separò in tempi remoti ma non troppo da ingegneria delle telecomunicazioni, che a sua volta era una costola di ingegneria elettronica), ingegneria elettronica, ingegneria delle telecomunicazioni, informatica (dove sono io, attento al dente, e che si separò in tempi remoti ma non troppo da matematica) e statistica, costituendo cosí la facoltà di Ingegneria dell’informazione, informatica e statistica. Temerarî.
Riguardo l’argomento del post, beh, boh. Temo che l’unica sia elencare competenze, magari semplicemente attraverso il curriculum degli esami dati. Che poi qui a Roma cose come ingegneria del software, ad informatica, sono addirittura obbligatorie.
Tommaso dice:
[Disclaimer: informatico non ingegnere]
Quello che mi lascia sempre perplesso è la tua avversione per Informatica (mm.ff.nn.).
Lasciando da parte i battibecchi tra ingengeri e resto del mondo, che da anni intrattengono gli studenti di Bachelor ma che vanno poco oltre a questo: non capisco cosa ti lasci tanto il dente avvelenato.
Alcune differenze ci sono, ma l’idea di fondo rimane quella. Sì, noi non abbiamo niente di elettronica ed abbiamo visto poco o niente di teoria dei segnali (per lo meno ai miei tempi, ora non so), due lacune che personalmente mi dispiace avere.
Ma posso dirti di aver lavorato con studenti di ingegneria informatica (di Padova) che… ecco, tanto da farmi quasi quasi venire il dente avvelenato con gli ingegneri, se non fosse che ne conosco altro di molto validi. Come del resto conosco informatici altrettanto validi.
Mi sembra talmente ovvio che quasi me vergogno a scriverlo, ma sta ovviamente a ciascuna persona saper metabolizzare ed integrare ciò che ha visto (o non ha visto) nel proprio percorso di studi.
Detto questo, la mia curiosità è sincera, non ho certo intenti flammatori. Ma che ti è successo con gli informatici?
Andrea Franceschini dice:
Molto poco ovviamente, la mia è più una battuta goliardica che altro. Conosco a mia volta ottimi informatici di scienze ma ho avuto quel paio di brutte esperienze che segnano una vita che si riconducono tutte più o meno alla sostanziale ignoranza delle problematiche ingegneristiche, non nel sonso di non conoscerle ma nel senso di far finta che i problemi pratici non esistano finché il modello teorico funziona, sottointendendo che per quei problemi esistono i manovali (gli ingegneri). Più in particolare mi secca il fatto che a noi ingegneri ci tocca farci un mazzo tanto di teoria e pratica per poi trovarci sostanzialmente equiparati ai matematici che si iscrivono all’albo (e quindi, all’occhio inesperto, figurano equivalenti ma probabilmente con meno coscienza pratica).
Detto ciò ripeto: la mia è una battuta provocatoria perché altrettanto frequentemente vengo smentito dai fatti, ma una motivazione di fondo c’è. Se le due discipline venissero uniformate efficacemente, io sarei il primo a metterci la firma.
Tommaso dice:
Non vorrei essere sembrato più serio del dovuto, era davvero curiosità e non polemica.
Però se le esperienze tragiche con gli informatici sono divertenti potresti anche scriverci un post :-P
Andrea Franceschini dice:
Se fossero divertenti, sì :P Più sì che no viene da piangere sapendo a chi è in mano il mondo, però -.-
Tommaso dice:
Beh, informatici, ingegneri o psicologi poco importa. Più che altro… viene da piangere sapendo a chi è in mano il mondo -.-