Dodici piccoli acini

Il buon giorno si vede dal mattino, e infatti il barman della stazione di Madrid Chamartin doveva essersi svegliato con entrambi i piedi sbagliati — pensavamo — ma comunque ha preso le ordinazioni di buon grado e non ci ha avvelenati. Croissant e café con leche sono un buon modo per riprendersi dopo una notte Renfe in classe turistica, che poi vuol dire otto sedili in uno scompartimento InterCity col risultato che a colazione il mio ginocchio sinistro stava ancora urlando. Ma siamo solo all’inizio e ci aspetta un tour de force che comincia con l’hotel.

Ci avevano detto che la metro di Madrid era un po’ confusa e poco efficiente ma in effetti non sospettavamo che si potessero creare così tante fermate su una linea sola — e si vede che il numero di curve era anche molto alto data la lentezza a cui procedono i convogli. Tuttavia la cosa più disorientante è che uno entra in una carrozza e si aspetta di trovare lo schema della linea con le fermate. No, a Madrid ci sono gli schemi delle altre linee, quelle con cui incrocia la linea su cui si viaggia, e lo schema della propria linea magari non è nemmeno in quella carrozza ma in quella dopo. Peggio ancora, siamo riusciti ad affrontare qualcosa come quattro (o cinque?) livelli sotterranei per una sola fermata. Giuro che la stazione più profonda che ho trovato a Barcellona era sotto di tre livelli, ed è un fatto eccezionale dato che in media non si scende mai più sotto di due. Dice, Barcellona ha meno linee e al limite è anche un po’ più piccola — ma mica di tanto — però non è un alibi per cacciare stazioni a caso e spesso con lunghi corridoi di collegamento. L’highlight è stato quando siamo scesi ad una fermata e ora che siamo usciti in strada, sulle scale c’era scritto un altro nome…

Comunque si arriva all’albergo — un po’ in periferia, ma un quattro stelle a quel prezzo può anche permetterselo — lasciamo i bagagli e ripartiamo alla volta della città. Il primo giorno, complice il quasi bel tempo, l’abbiamo passato correndo tra una piazza e l’altra, tra una Gran Via e un viottolo un po’ a caso, in modo abbastanza disordinato, e subito abbiamo capito una cosa — o meglio, non l’abbiamo capita: Madrid non ha una struttura. Non c’è un centro storico, non ha punti di riferimento. Ha solo vie, palazzoni brutti, qualche raro palazzo bello, qualche chiesa di un certo valore (la Cattedrale, per esempio, è stata costruita nel 1985 su un progetto più antico) e tutto quanto è pulito e nuovo, come appena scartato.

Ad un certo punto viene fame a chiunque, e quindi anche a noi. Ci siamo infilati in un negozio di panini, abbiamo ordinato e abbiamo mangiato. Servizio triste e scortese ma, abbiamo pensato, sarà un caso — per esempio a Barcellona ci hanno portato via i vassoi vuoti e portato il caffè, lì a momenti la cassiera ti sputava nel bicchiere. Rinfrancato il corpo, si torna a rinfrancar lo spirito continuando tra piazze, viali e negozietti di souvenir di un kitsch troppo kitsch perfino per me — e cosa ci farà il merchandising del FCB al posto di quello del Real Madrid resta un mistero.

La metro a Madrid chiude ufficialmente alle 2 di notte ma gli autobus poco dopo le 23 e quindi abbiamo fatto di necessità virtù. A quel punto restava solo da capire come muoversi durante nochevieja e capodanno: l’autista del bus sosteneva che il servizio di autobus continuava come tutti i giorni, un tipo poco affidabile ci assicurava che dopo le 21 non c’era più niente, i cartelli nelle stazioni della metro sparavano orari di chiusura ed apertura assolutamente arbitrari, il sito della metro che avevamo consultato qualche giorno prima diceva che tutto era regolare tranne alcune stazioni che chiudevano dalle 21:30 a mezzanotte e mezza — si suppone per poi riaprire fino alle 2 ma non è che fosse scritto da nessuna parte…

Fatto sta che il 31 l’abbiamo dedicato al Prado che chiudeva alle 14 e quindi non siamo neanche riusciti a vederlo tutto. Il peggio è che anche ogni altro museo chiudeva alle 14 — tranne apparentemente quello della cera che poi era anche l’unico aperto il primo gennaio. Quindi a noi non è rimasto che vagolare col brutto tempo per il pomeriggio, finché abbiamo deciso di tornare qualche minuto in hotel per poi ripartire prima delle 21 — orario confermatoci dalla receptionist che ci informava altresì che l’unico modo per tornare in hotel era il taxi.

Ormai rassegnati, lasciamo l’albergo e prendiamo il bus fino alla metro più vicina. E qui si scopre che in realtà tutto restava in funzione fino alle 1:30, perfino le stazioni che normalmente chiudono prima. Ogni altro cartello era sparito, c’erano solo delle segnalazioni a pennarello su fogli bianchi che informavano di questo fatto. Alle 20:30 del 31 dicembre. Io me lo vedo Zapatero che tuona “contrordine, compagni!”.

Il capodanno a Madrid si festeggia tradizionalmente alla Puerta del Sol, centro commerciale e culturale nonché km 0 della città. Alcuni indomiti (circa trentamila quest’anno) cominciano a festeggiarlo qualche ora prima correndo una maratona cittadina a cui alcuni partecipano vestiti in modo folle — forse i più belli erano un gruppo di soldati romani inseguiti a breve distanza da Asterix e Obelix — mentre la maggioranza preferisce la maglia verde lime d’ordinanza. Comunque, tornando alla Puerta del Sol, la tradizione vuole che nel minuto che precede la mezzanotte si ingurgitino dodici acini d’uva e si facciano i propositi per l’anno nuovo. Noi non si era riusciti a procurarci l’uva però abbiamo scoperto che c’erano i bagarini che vendevano sacchetti già pronti a 1 € ciascuno. Ad averlo saputo, però, uno si comprava il kit 12 acini — una lattina che si trova in alimentari e supermercati che contiene tutto il necessario, ma non è che si può sapere tutto prima.

Un’altra cosa carina da sapere è che se anche la cameriera italiana vi suggerisce di aggirarvi in zona e cercare una birreria con tapas per cena, la birreria con tapas è chiusa o subisce un rialzo dei prezzi attorno al 500%. Ma più che altro è chiusa. Chiusa tipo chiusissima. Non ho mai visto tanti locali chiusi in una città grossa la notte del 31 dicembre. Dice, si festeggia in piazza: e vabbè, infatti dal Maoz a due passi dalla piazza (catena di felafel et similia rigorosamente vegetariana) c’era una discreta fila — discreta almeno una ventina di metri, per capirci. E a noi è andata bene perché, mentre ci ingozzavamo di pita e verdure, la fila è diventata ancora più discreta.

Infine ci si butta in piazza — sempre se riuscite a sopravvivere agli assalti della polizia che aggredisce chiunque si sistemi l’uva nella borsa, specialmente quelli dai tratti orientali — e si aspetta mezzanotte facendo foto (per conto terzi) e difendendo con le unghie la posizione e la spina dorsale da gente perfettamente sobria che sgomita con veemenza per posizionarsi venti centimetri più avanti di voi.

Più avanti, tra l’altro, è un concetto assolutamente arbitrario perché non c’è un palco o checchessia altro riferimento. Quelli più scafati sono rivolti verso il palazzone bianco con sopra il neon “Feliz 2009” spento, ma per il resto nulla. Fino a che, pochi minuti prima di mezzanotte, parte uno spot autocelebrativo a base di foto, luci, musica e uno slogan che avrebbe preso il minimo in qualsiasi corso per copywriter. Alle 23:59 vengono proiettati sei cerchi luminosi contro la torre dell’orologio e questi ruotano in cerchio ogni 5 secondi. La gente comincia ad ingozzarsi con l’uva facendo foto con una mano e cominciando a scrivere gli auguri sul cellofono con l’altra — aspetta, e l’uva come la mangiavano? Ah, sì, con la bocca… — e finalmente l’anno nuovo arriva e ci libera tutti con uno spettacolo pirotecnico musicale a volo sulla piazza ché comunque a me quello di Padova era piaciuto di più.

Il giorno dopo, imbarcati a Barajas gli amici, restiamo in due a girarci con la dovuta calma la città. In particolare il gran bel Parque del Retiro e il quartierino di modernariato medievale in cui si trovano gli edifici più antichi della città tra cui anche il Comune. In serata abbiamo fatto l’ultimo tentativo di trovare l’albero pac-man che alla fine si è rivelato essere tre fermate dopo quella indicata dalla stragrande maggioranza dei siti Internet che lo menzionano.

Menzione speciale meritano il tempietto egiziano donato alla città per l’aiuto fornito nello spostamento del tempio di Abu Simbel, la scortesia da manuale di qualsiasi negoziante e degli addetti del Prado (tranne la suddetta cameriera italiana, e ho capito che è capodanno ma non gli fai mica un bel servizio all’immagine della città) e la stazione Atocha di Renfe che ha un pezzo di giungla con tanto di animaletti acquatici — e peccato che la campagna era finita, perché nella giungla una volta c’era piantata la coda dell’Oceanic 815 in promozione a Perdidos — che io dico vabè se lo vuoi doppiare, ma almeno non tradurmi anche il titolo…

Alla fine, dopo un’altra nottata Renfe, Barcellona sembrava davvero in un altro paese — un paese fatto di gente che saluta, ringrazia, e si scusa se ce n’è bisogno. Magari avremo avuto sfiga, però al prossimo che mi racconta come funziona bene il turismo e quanto avanti è la Spagna, dovrò ridere in faccia.

5 commenti

Xa dice:

San MAOZ, salvatore degli affamati! :D Ma negli sportelli info di metro e città erano meno scortesi, dai…

Comunque forse ho capito perché non trovavamo il Pac-Man albero: era già stato esposto l’anno scorso ma in una zona diversa. Però su designerblog l’indirizzo era giusto :P

Gervasu dice:

eh, buon anno e quant’altro, ma non ho capito la storia degli sbirri tra la folla a cui non piace l’uva o.o

Perché i bagarini erano quasi tutti orientali, no? E giravano con i sacchetti in una borsa e li vendevano… e siccome nella piazza non si poteva vendere (né portare bottiglie di vetro e altre cose pericolose che poi sono ugualmente spuntate allo scoccare della mezzanotte), lo spettacolo è stato un poliziotto che inveiva in spagnolo contro una povera giapponese che metteva due sacchetti due nella borsetta gridandole ripetutamente che non si poteva vendere dentro le transenne e lei, giustamente, non capiva che cacchio le gridasse questo qua.

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